Di Luciano Bianciardi la critica ha ripreso ad occuparsi nell’ultimo decennio dopo il lungo silenzio seguito alla sua morte. Successivamente alla monografia del 1980, rarissimi e sporadici gli interventi sull’autore toscano: sino al 1991, quando – in occasione del ventennale della morte, per merito della Fondazione a lui intestata e soprattutto della figlia Luciana, che ha sempre voluto mantenere viva l’immagine del padre anche con la ripubblicazione dei suoi scritti – il convegno “Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione” ha segnato il punto d’inizio del rinnovato interesse per uno scrittore a cui è d’obbligo riconoscere il merito di aver avuto “l’occhio lungo” sugli sviluppi e sulle conseguenze di una realtà sociale allora in fieri. Mentre la biografia di Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, aveva fatto sì che il nome dello scrittore grossetano tornasse <<a volare sui lettori e sui giornali>>, un altro convegno (“Carte su carte di ribaltatura”, 1997) si era occupato della sua intensa attività di traduzione. Il recentissimo volume di Giancarlo Ferretti, La morte irridente, è la dimostrazione  che la critica sta saldando il suo debito verso un autore probabilmente “scomodo” in un certo periodo, ma sicuramente  di sorprendente attualità.

    Rileggendo, a distanza di 40 anni, alcune pagine de Il lavoro culturale (1957), dell’Integrazione (1960) o della Vita agra (1962) non possono non colpire l’acume e la lungimiranza di Bianciardi nell’aver intuito, con largo anticipo, molti degli effetti deleteri e stranianti del consumismo Nel definire <<balordo>> il “miracolo economico”, non sa riconoscere niente di positivo in una nuova concezione o conduzione dell’esistenza che stava trasformando la vita in lotta senza esclusione di colpi, nel miraggio del benessere materiale e di una condizione sociale apparentemente migliore: in realtà, tesa a ignorare o calpestare le più elementari regole della convivenza umana.

    Tutti avranno tutto <<purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera>>, mentre ormai – per l’occupazione e il mantenimento del posto di lavoro - sembra essere valido solo il principio del mors tua vita mea. Bianciardi si ribella e si oppone, ma ammette – con dolorosa accettazione della sua personale impotenza – il fallimento di ogni tentativo individuale o collettivo. Il <<padrone>>, cioè il “sistema”, ha catturato nei suoi ingranaggi tutti e, a loro insaputa, li sta modificando e stritolando: gli effetti del boom economico sono evidenti soprattutto a Milano, dove alla ormai galoppante necessità dei bisogni indotti dalle leggi di mercato, e all’ossessivo binomio velocità – efficienza, corrisponde la progressiva ed inesorabile disumanizzazione in ogni settore della vita sociale.

    <<La gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare>> (ma non si sa dove) perde la propria identità per non perdere il passo in questa corsa assurda che conduce forse soltanto <<a pagare la tratta che scade>>; sono tutti

<< stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso. E la tragedia sta proprio nel fatto che di questo loro non si avvedono, che si ritengono privilegiati>>

e non sanno che vanno solo <<nella direzione che più fa comodo al padrone>>. Non sanno che

 <<neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri>>.

     E’ il caso di ricordare che in quegli anni il mediatico battage pubblicitario era solo all’inizio (di là da venire le televisioni private, gli spazi erano esclusivo appannaggio, ogni sera, dei circa 5 minuti di Carosello) e di sottolineare che Bianciardi aveva intuito persino – quando di chirurgia plastica appena si parlava – che avremmo finito anche per obbedire all’effimera necessità di modificare il proprio aspetto fisico per seguire canoni estetici dettati da quello che, anni dopo, sarebbe stato il “culto dell’immagine”.

    Come ha avvertito, da subito, la destabilizzante potenzialità – per l’equilibrio e l’autenticità degli aspetti sociali o semplicemente “umani” – di un fenomeno appena iniziato nella Milano della frenetica ricostruzione, Bianciardi ha anche, e soprattutto, avvertito che le leggi del capitalismo e del consumismo si sarebbero inevitabilmente propagate nel resto del Paese:

 <<Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano>>.

     La rabbia e l’amarezza si risolvono in una delusione che va oltre l’esperienza personale: delusione tout court di chi ha tenuto sempre gli occhi bene aperti e ha denunciato, con lucidità ed ironia, come “il sistema” portasse inevitabilmente alla <<diseducazione sentimentale>>, e cioè al disinteresse per il proprio simile, considerato soltanto anonima e inanimata <<pedina>> da mangiare nella spietata scacchiera dell’azienda e di una <<società d’affari>> in cui tutto era mercificato a tal punto da condurre, senza via di scampo, ad una degenerazione che alterava e frantumava il DNA della dimensione-uomo.

    Se rancore beffardo e ribellione hanno una funzione predominante nella genesi di quasi tutti i romanzi di Bianciardi, sono poi questi stessi elementi che lo portano ad un progressivo isolamento, non tanto e non solo per il suo lavoro (la massacrante attività di traduttore) ma per la profonda convinzione della sua costituzionale incapacità di adattamento ad un sistema di vita in antitesi con la sua concezione dell’esistenza e dei rapporti umani. Lo dimostra il fatto che, dopo l’inaspettato successo di critica e di pubblico (e quindi anche economico) della Vita agra, torna al <<lavoro di tutti i giorni […] per riconquistarsi la stima di medesimo>>. Non solo non cede ad allettanti lusinghe (rifiuta la collaborazione al <<Corriere della Sera>>) ma il disagio nella città-monstre si acuisce a tal punto da spingerlo ad un ulteriore esilio, nella ricerca di una diversa dimensione in altro luogo (Rapallo), dove scrive l’ultimo romanzo (Aprire il fuoco). Meno noto, di non facile lettura e forse sottovalutato, è – pur nel divertente pastiche linguistico e temporale –  più di ogni altro rivelatore di quella disperazione che, nell’arco di pochi anni, porterà Bianciardi alla morte . Si ritrova qui l’anticipazione dell’ autunno caldo (il libro, pubblicato nel 1969, era stato scritto nella primavera dell’anno prima) e della “strategia della tensione” che sarebbe iniziata nel dicembre del ‘69 con le bombe di piazza Fontana.

 <<Ebbene io posso dire con sicurezza che quei due morti… erano previsti e voluti e deliberatamente calcolati dal cinismo di fatebenefratelli… Si voleva dare una lezione alle teste calde; riportare le pecore (che però pecore non erano) all’ovile dell’obbedienza. Fu una cosa tutta programmata a puntino>>.

     In chiusura, due citazioni particolarmente indicative ed attuali: la prima dalla Vita agra:

 <<La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. E la lotta politica, cioè la lotta per la conquista e la conservazione del potere, non è ormai più – apparenze a parte – fra stato e stato, tra fazione e fazione, ma interna allo stato, interna alla fazione>>.

     La seconda da L’alibi del progresso, un articolo del 1959 (ha questo stesso emblematico titolo il recente volume – con prefazione di Dario Fo – che raccoglie parte dei tantissimi interventi di Bianciardi su vari giornali):

 <<E’ giusto organizzare convegni sull’impiego del tempo libero, con due milioni di italiani che non hanno lavoro, e più ancora che lavorano sei mesi all’anno?>>.

 Maria Clotilde Angelini

LE TEMATICHE DI LUCIANO BIANCIARDI